Come si può sentire una persona cui viene diagnosticata la malattia di Alzheimer? Come si sentirebbe ciascuno di noi? Come si convive giorno dopo giorno con il progressivo sgretolarsi della memoria e con essa la propria stessa vita?
Prova a immaginarlo Lina Genova, neuropsichiatra del Massachusetts, studiosa del cervello e delle sue degenerazioni, in particolare dell’Alzheimer.
Dalla sua fantasia e dalla sua esperienza clinica nasce il romanzo Perdersi, che narra la storia di Alice Howland, brillante docente universitaria di linguistica a Harvard.
Un matrimonio riuscito, tre figli ormai indipendenti, Alice vive una vita piena e realizzata tra affetti e impegno professionale.
Da un po’ di tempo soffre di qualche vuoto di memoria: durante una lezione le sfugge una parola, a casa cerca inutilmente un oggetto per poi ritrovarlo proprio dove deve essere, dimentica un appuntamento, promette di inviare una e-mail e non lo fa.
Sarà lo stress, pensa, o l’effetto del naturale avanzare dell’età.
Ma le dimenticanze e le lacune si fanno sempre più frequenti, finché un giorno Alice si smarrisce mentre fa jogging a due passi da casa e per un po’ non sa più dove si trova.
Decide di sottoporsi agli accertamenti medici e la diagnosi è terribile: Alzheimer precoce, a cinquant’anni appena compiuti.
De-menza vuol dire senza mente ed è la perdita più drammatica che possa capitare a un essere umano. Alice, con la lucida consapevolezza di una addetta ai lavori, sa che cosa l’aspetta: assistere al deteriorarsi della memoria, fino a perdere la sua stessa esistenza, perché i ricordi sono l’essenza della vita stessa.
Donna colta e avvezza alla tecnologia, Alice la utilizza per non perdersi nella nebbia della sua memoria sempre più labile, e vale la pena riflettere sul ruolo che gli strumenti tecnologici possono rivestire come sostegno ai malati di demenza.
Alice delega al suo Blackberry il compito di supportare la sua memoria e di compensarne le falle sempre più grandi. Non solo, lo ha programmato per porle ogni mattina alcune domande, sempre le stesse, per verificare che le informazioni più preziose non siano perdute.
Significativo l’episodio in cui il marito di Alice trova il Blackbarry nel freezer, ormai distrutto, ed è l’inizio della fine.
La solidarietà di amici e colleghi e soprattutto l’amore dei familiari hanno un ruolo fondamentale nel sostegno del malato di Alzheimer, ma loro, i sani, non possono comprendere fino in fondo come ci si sente quando si perdono giorno dopo giorno tasselli di vita.
Consapevole di ciò, Alice cerca un gruppo di sostegno per affrontare la sua malattia assieme ad altri con le medesime problematiche e scopre che tali gruppi non esistono: tutte le iniziative sono rivolte ai parenti, per condividere lo stress dell’assistenza. Crea lei stessa un gruppo di auto-aiuto, cercando altri malati di Alzheimer che vogliano parteciparvi e scopre che il bisogno di condividere e di farsi coraggio l’un l’altro c’è e va accolto.
Ma con l’evolvere della malattia, anche i membri del gruppo si perdono e l’amore della famiglia non basta più: man mano che si perde la possibilità di comunicare, emerge lo sconcerto di non riconoscere la persona amata e di allontanarsi sempre di più. Alice lo sa molto prima che accada:
“Desiderò di avere piuttosto un cancro. Avrebbe barattato l’Alzheimer con il cancro in un batter d’occhio. Si vergognò per averlo desiderato e di sicuro era un patto inutile, ma si concesse comunque la fantasticheria. Un cancro era qualcosa contro cui potersi battere. C’erano la chirurgia, la radioterapia, la chemioterapia. La sua famiglia e la comunità di Harvard l’avrebbero sostenuta nella sua lotta e l’avrebbero considerata nobile. E se anche ne fosse stata sconfitta, alla fine, avrebbe potuto guardarli consapevolmente negli occhi e salutarli tutti prima di andarsene.
L’Alzheimer invece era una brutta bestia. (…)
E se una testa calva e un nastrino anticancro erano considerati emblemi di coraggio e speranza, il suo vocabolario difficoltoso e i ricordi annebbiati parlavano invece di instabilità mentale e demenza incombente. Chi era malato di cancro poteva contare sul sostegno della comunità. Alice si aspettava di essere emarginata. Persino le persone più istruite e meglio intenzionate tendevano a tenersi a timorosa distanza dai malati mentali. Non voleva diventare qualcuno che la gente temeva e allontanava.”
Da alcuni anni di Alzheimer si occupa la divulgazione scientifica, la letteratura e il cinema, ma l’attenzione è quasi sempre rivolta a chi deve assistere un ammalato, perché è devastante perdere una persona amata ancora viva, ma ormai lontana. L’originalità di Lina Genova è l’aver raccontato l’Alzheimer dalla parte di chi ne è affetto.
Il romanzo ha avuto un enorme successo, tanto da diventare un film, Still Alice, con la splendida Julianne Moore, Premio Oscar per la miglior attrice protagonista, registi Richard Glatzer e Wash Westmoreland.
Particolare commovente, nel 2011, poco prima dell’inizio dei lavori di Still Alice, fu diagnosticata a Richard Glatzer la sclerosi laterale amiotrofica e la malattia ha avuto un decorso molto rapido. Ciò non gli ha impedito di continuare a lavorare accanto a Westmoreland.
Glatzer è morto il 10 marzo 2015, poco dopo la conclusione delle riprese del film.
Lisa Genova, Perdersi, Edizioni Piemme, 2012