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Una mia paziente, nel  raccontarmi le tensioni nella sua famiglia, mi ha detto: “Scriva sul suo sito quali sono le parole che una persona ansiosa e depressa non vorrebbe mai sentirsi dire, soprattutto dai propri familiari.

Forse qualcuno, leggendo, rifletterà su quanto certe parole ci possano ferire.”

Pensando a lei, e ai tanti pazienti che hanno condiviso con me le proprie sofferenze, e pensando anche alla sensazione di impotenza che spesso si prova nei confronti delle persone care sofferenti, provo a elencare quello che secondo me sarebbe meglio non dire a chi soffre di un disagio psicologico.

È tutta questione di volontà, devi sforzarti.

È sorprendente notare come anche le persone dotate di una forte volontà, quando cadono in uno stato di sofferenza psicologica, faticano persino a decidere che abito indossare.

La volontà si paralizza, soprattutto negli stati depressivi. Il paziente non vuole, non può volere: se solo potesse, sarebbe il primo a voler uscire dal suo stato.

È doloroso e umiliante sentirsi dire: “sforzati, metticela tutta”, quando la volontà è paralizzata.

L’atteggiamento più efficace consiste nel comunicare che comprendiamo bene che è non è per cattiva volontà, ma per reale difficoltà che certe azioni diventano difficili.

È utile dare messaggi di fiducia nel futuro, magari raccontando storie di persone che sono uscite da periodi neri e adesso stanno bene.

Lascia stare, ci penso io.

Vedendo un familiare che fatica a portare a termine le proprie incombenze abituali, può venire naturale cercare di sollevarlo.

Pensiamo ad esempio al marito che si occupa delle faccende di casa quando la moglie non ci riesce più.

Così facendo, però, aumentano le sensazioni di inadeguatezza e di fallimento e rinforza nella moglie la convinzione di “non essere più capace di fare nulla”.

La persona cara va aiutata, senza però sottrarle i ruoli che abitualmente ricopriva.

Va piuttosto incoraggiata ad andare avanti comunque, enfatizzando i suoi successi, grandi o piccoli che siano, nella battaglia quotidiana contro il malessere psicologico.

Guarda chi sta peggio di te. 

Il senso di colpa e di inadeguatezza sono tra le caratteristiche principali del disagio psicologico, primo tra tutti la depressione.

Il depresso, o chi è preda dell’ansia, o è prigioniero degli attacchi di panico, sa benissimo che c’è chi sta molto peggio, ed è anche per questo che si sente ancora più in colpa.

Non serve ricordarglielo.

E’ necessario invece fargli sentire che comprendiamo molto bene che il suo malessere è davvero difficile da gestire, ma siamo fiduciosi nel fatto che è possibile sconfiggerlo.


Pensa a quanto fai soffrire chi ti vuole bene

Una variante è: sto male per causa tua.

Anche affermazioni di questo genere aumentano i sensi di colpa.

Chi sta male, soffre anche per la consapevolezza del disagio che provoca ai suoi cari: è inutile e dannoso ricordarglielo.

Le persone care dovrebbero fare un passo indietro rispetto al loro personale (e comprensibile) dolore e rassicurare rimarcando la loro affettuosa presenza.

Frasi come: “assieme ce la faremo” sono efficaci e fanno un gran bene.

Non sono questi i veri mali.

Simile alla affermazione precedente è l’insinuazione che, in definitiva, chi soffre di problemi psicologici non sta male “davvero”. I veri malanni sono quelli che si vedono, che si “toccano con mano”.

Così si sminuisce la sofferenza dell’altro provocandogli dolore, impotenza, frustrazione.

E’ più efficace dire: “mi è difficile comprenderti, perché non ho mai provato quello che provi tu”.

Con te non c’è nulla da fare: tutti gli sforzi per aiutarti sono inutili.

Parole del genere non faranno che rinforzare i sentimenti negativi e i sensi di colpa che già accompagnano il disagio psicologico. Fanno sentire inadeguati e incapaci di ricambiare tutto l’affetto che viene profuso.

L’aiuto vero è quello di chi sa dare senza aspettarsi nulla in cambio.

La terapia che hai scelto non va bene, prova a cambiare.

È assai probabile che il paziente sia giunto a chiedere aiuto dopo un periodo di incertezze e timori.

Mettere in discussione la sua decisione e l’autorevolezza della figura terapeutica prescelta lo riporterà indietro, facendolo precipitare in un vortice di dubbi e di ricerche spasmodiche della terapia “giusta”.

Così, sortirà l’effetto della farfalla impazzita che, accecata dalla luce, sbatte qua e là, senza riuscire a uscire dalla stanza.

È meglio rinforzare la scelta fatta – che sia un percorso di psicoterapia o una cura farmacologica o la sinergia tra le due – parlando in termini positivi del professionista che ha preso in carico il proprio caro.

È evidente che dopo un periodo ragionevole di terapia, in assenza di miglioramenti significativi, sarà il paziente stesso a porsi il problema di cercare altre soluzioni.

Butta via le medicine, ti fanno solo male.

Spesso il paziente arriva ad assumere i farmaci dopo aver vinto molte paure: degli effetti collaterali, di diventare dipendente, di cambiare personalità.

Se con la guida dello specialista è arrivato a decidere di assumerli, sarebbe un grave errore indurlo a interrompere la terapia, soprattutto bruscamente e senza la supervisione del medico.

In conclusione.

Ricordiamoci che i consigli spesso irritano, soprattutto quando non sono richiesti.

Ancor più possono risultare sgradevoli per coloro che con ogni probabilità hanno già tentato, senza successo, di mettere in pratica quanto stiamo suggerendo loro.

Teniamo anche in considerazione il fatto che, quando elargiamo consigli, ci sovrapponiamo all’altra persona, suggerendole di comportarsi come noi ci comporteremmo nella sua situazione.

Ma ciascuno di noi è diverso, ha la sua storia e, soprattutto, chi non sperimenta sulla propria pelle la sofferenza psicologica non può dire che cosa farebbe se la vivesse davvero.

Le persone che soffrono di disagi psicologici hanno bisogno di sentirsi comprese, sostenute e incoraggiate a guardare avanti: come scrive lo psicoterapeuta Giorgio Nardone nel titolo di un suo libro: “Non c’è notte che non veda il giorno”.